In un mondo dove tutto può essere comprato e ricevuto a casa, dove realtà come Amazon stoccano prodotti multimarca per una distribuzione centralizzata, come si sta evolvendo il mondo del food?
Lo abbiamo chiesto alla nostra amica Anita Malpighi, architetto per una delle più grandi realtà della ristorazione italiana.
Si stima che il mercato del delivery food valga, ad oggi, 35 miliardi di dollari sul mercato globale e che avrà un incremento del 20% annuo sino a arrivare, nel 2030, all’incredibile valore di 365 miliardi di dollari, decuplicando il proprio giro di affari.
Come fare quindi fronte a questo incremento esponenziale della domanda, dettato principalmente dalla richiesta dei millenials di avere i pasti direttamente a casa?
Sembra che la risposta possa risiedere in un nuovo concetto di cucina centralizzata: la Cloud Kitchen (o Dark Kitchen).
Alla base di questo nuovo modello di ristorazione ci sono, come suggerisce in parte il nome, cucine che non si vedono, né sono a diretto contatto con il consumatore.
Luoghi di preparazione centralizzati, dotati di tutte le attrezzature idonee a fare da mangiare e che possono essere “affittate” da diversi ristoratori contemporaneamente per la realizzazione di piatti delivery.
Sarà quindi possibile utilizzare le varie app per ordinare in contemporanea pizza, sushi, thai o messicano, ma anche piatti gourmet e della tradizione, attraverso un’unica comanda che garantirà la consegna simultanea di ciò che è stato scelto.
Questo nuovo modo di fare ristorazione consentirà l’abbattimento dei costi da parte dei gestori, che avranno la possibilità di utilizzare spazi non di proprietà sgravandosi così dal peso di una struttura indipendente, permettendo allo stesso tempo ai consumatori di avere una vasta scelta di prodotti tra i quali ordinare, ricevendoli a casa o al lavoro in un’unica consegna.
E i vantaggi di questo nuovo modello a mio avviso non si esauriranno qui!
Un luogo di preparazione centralizzato prevede ad esempio anche un magazzino unico dove le consegne possono essere effettuate da un unico vettore: ciò significa meno circolazione di veicoli all’interno delle città, con una conseguente diminuzione dell’inquinamento e un impatto meno rilevante di questa tipologia di settore sull’ambiente.
Se questo sistema adottasse poi anche sistemi di recupero energetico integrati, potremmo pensare di avere strutture autosufficienti dal punto di vista energetico, cosa che invece attualmente risulta molto difficile da prevedere in ristoranti che possiedono punti vendita in edifici non di loro proprietà.
Da non sottovalutare, infine, anche il lato “umano” nella gestione delle risorse, i famosi rider, che oggi finiscono spesso sotto la lente di ingrandimento dell’opinione pubblica per le complicate condizioni lavorative e contrattuali con cui si trovano a dover convivere.
Un luogo unico cui fare riferimento consentirebbe loro di poter attendere la consegna in uno spazio attrezzato per ogni esigenza, dal riscaldamento/climatizzazione ai servizi igienici, migliorando indiscutibilmente la propria condizione lavorativa almeno sotto alcuni punti di vista.
Sono però anche diversi gli interrogativi che mi pongo riguardo questo nuovo modello, interrogativi cui non so dare una risposta e per i quali lascio la parola al mondo del marketing per iniziare una riflessione.
Per quanto tempo queste cloud kitchen saranno destinate ad ospitare realtà lavorative diverse tra loro prima che un qualche “big” del delivery non decida di creare una catena con il suo marchio che possa soddisfare le molteplici richieste del mercato?
Ed in quel caso, cosa risulterà decisivo nel far pendere il consumatore per l’uno o l’altro brand?
Se i nomi e le insegne dei singoli ristoranti venissero meno, come faremo a distinguere le diverse offerte commerciali?
Nasceranno per caso un “deliveroo mexican”, un “deliveroo pizza” ecc?
Come potrà il marketing interagire con un interlocutore che utilizza solo le app e che ormai è saturo di stimoli mediatici continui?