Partiamo dall’inizio: negli ultimi due mesi l’hashtag deinfluencing è diventato virale su TikTok, raggiungendo ad oggi oltre 200 milioni di visualizzazioni. I deinfluencer sono creator che pubblicano video nei quali, all’opposto degli influencer, consigliano agli utenti cosa non comprare o non utilizzare.
I brand possono reagire a questo trend adeguando i propri comportamenti sui Social Media?
Nonostante molti di noi facciano ancora fatica ad ammetterlo, oggi quasi tutti coloro che hanno usato Internet sono stati influenzati. TikTok, Instagram, Twitter, Twitch, Facebook, YouTube (e persino siti d’informazione e riviste online) sono pieni di suggerimenti che incentivano una qualche forma di transazione economica.
Quando siamo fortunati, la vicinanza tra l'”influenzatore” e il prodotto pubblicizzato è reale e motivata da convincimenti sinceri, passioni o interessi. Quando invece la collaborazione è più evidentemente suggerita dai brand, il risultato può essere posticcio e piuttosto lontano dalla naturalezza delle normali interazioni social.
In questo contesto ormai molto saturato, è inevitabile che molti utenti risultino infastiditi o persino delusi. Una sensazione che nasce tanto dall’ambiente eccessivamente promozionale che si è creato quanto dal risultato dei prodotti stessi che hanno acquistato.
Ed ecco quindi il deinfluencing, trend che incoraggia gli utenti a non comprare un certo prodotto (perché superfluo o inefficace), invadere TikTok.
Perché è (ri)nato il deinfluencing
Si tratta in realtà di un fenomeno già visto: nel 2015, su YouTube, proliferavano video con intenti simili (che al tempo si chiamavano anti-haul).
L’ondata di viralità attuale (più evidente dato lo spazio che gli acquisti online hanno guadagnato) sembra rispondere a un insieme di fattori concomitanti.
Innanzitutto, la consapevolezza degli utenti sui meccanismi (ormai neanche più tanto) sommersi che regolano le collaborazioni tra brand e influencer/creator è enormemente cresciuta. E quindi anche l’abilità di individuare rapporti non trasparenti o casi di pubblicità ingannevoli operata da alcuni influencer. Il caso che recentemente ha suscitato maggiore clamore è stato quello di Mikayla Nogueira, una make up artist con 14,4 milioni di follower. Dopo aver sponsorizzato un mascara, è stata infatti accusata di aver indossato ciglia finte per accentuare l’effetto del prodotto. Casi come questi finiscono per minare la fiducia tra l’influencer e la propria community, e mettere in cattiva luce l’intero sistema di influencer marketing.
Il deinfluencing sembra aver ripreso piede nelle ultime settimane anche per il contesto economico che ci circonda. Dall’Europa agli Stati Uniti, la crisi energetica e l’inflazione, unite alle conseguenze della pandemia e della guerra in Ucraina, hanno reso l’opinione pubblica sempre più sensibile all’ostentazione dello stile di vita lussuoso di alcuni influencer.
@michelleskidelsky Replying to @krishateresa 🫡🫡 my bank account hates me, save yours while you can #deinfluencing ♬ original sound – michelle
Ma non è solo l’economia a innescare il deinfluencing. Questa è anche una risposta al modo in cui TikTok stesso è cambiato, aprendosi all’arrivo massiccio dell’influencer marketing.
Lo scorso novembre TikTok ha lanciato negli Stati Uniti la nuova sezione TikTok Shop, che consente agli utenti di effettuare acquisti direttamente sull’app. I creator guadagnano una commissione su ogni acquisto grazie al collegamento dei prodotti dello Shop nei propri video.
La nuova funzione ha causato un aumento repentino dei contenuti sponsorizzati dai brand sulla piattaforma. Contemporaneamente, sono apparsi moltissimi video in cui gli utenti mostrano i propri acquisti ammettendo che #TikTokMadeMeBuyIt, indispettendo però un’altra fetta di utenti.
In un’intervista a Wired, Charlotte Palermino, CEO di un brand di cosmetici statunitense molto popolare su TikTok, ha detto: «Qualche anno fa TikTok appariva così autentico perché la gran parte degli utenti non si prendeva sul serio. I brand non stavano investendo molto sui creatori. Era uno spazio divertente, quasi senza sollecitazioni esterne. Ora invece la pressione ha raggiunto il punto di ebollizione.»
Deinfluencing: etica o guadagno?
Se quindi le intenzioni teoriche alla base di queste attività possono essere lette come un’effettiva reazione all’eccesso di consumismo sempre più diffuso sui Social Media, molti commentatori hanno sottolineato come le modalità di deinfluencing siano, di fatto, le stesse messe in pratica dagli influencer affermati. Utenti “semplici” e creator usano la propria voce per influenzare le decisioni di acquisto del proprio pubblico, piccolo o grande che sia. La pratica è stata solo adattata per allinearsi con i sentimenti dei consumatori durante un periodo di crisi economica.
Inoltre, assecondare il trend e pubblicare recensioni critiche può aiutare gli utenti a guadagnare popolarità (e trasformare perfino un passatempo in un’attività semi-professionale, come ha raccontato, sempre a Wired, Alyssa Kromelis, diventata in pratica un’influencer del deinfluencing, costruendo il proprio personaggio sull’affermazione di cosa non è e in cosa non crede). Viceversa, creator già famosi possono in questo modo prendere le distanze dalle polemiche che stanno erodendo la fiducia nel settore degli influencer, avvicinandosi alle aspettative della propria community.
È proprio su quest’ultimo punto che si innesta la riflessione più interessante per i brand. Come reagire quando una parte sempre più ampia di utenti dimostra di mal sopportare le attività promozionali più sfacciate e invadenti?
Come possono reagire i brand?
Non c’è dubbio che queste tendenze, pur comprendendo aspetti contraddittori, contribuiscano a creare almeno una pausa nell’ubriacatura consumistica che viviamo tutti i giorni sui Social Media, quasi senza accorgercene. Uno stop critico che induce a una riflessione: in quanto consumatori, siamo consapevoli di come, quanto e dove spendiamo i nostri soldi?
Se queste sono le domande che i clienti si pongono, tanto i creator quanto i brand dovrebbero essere estremamente ricettivi alle risposte e, anche, alla possibilità di direzionare le aspettative del mercato.
I consumatori del futuro, la Gen Z, ama TikTok (che in tutte le previsioni è indicata come il principale motore che guiderà la crescita di vendite di social commerce) e la maggior parte di loro già si presenta come molto attenta alla sostenibilità dei propri consumi e modelli di spesa. Al contrario delle generazioni passate, il fattore più influente per motivare un acquisto sta diventando il rispetto di principi personali, sociali e ambientali, piuttosto che il prezzo o lo status quo.
Ecco perché tutti i brand, indipendentemente dal proprio mercato di riferimento e dal target generazionale a cui si rivolgono, presto o tardi dovranno relazionarsi con queste richieste. Sbilanciarsi e prendere posizione, abbracciare cause sociali e ambientali, o perfino includere nel proprio modello di business l’impegno verso cause che vanno al di là del semplice profitto economico (ne avevamo parlato a proposito del Brand purpose messo in pratica da Patagonia). Ecco le direttrici su cui i brand dovranno cercare di allinearsi per avvicinarsi alle aspettative dei consumatori del prossimo futuro.
Il trend del deinfluencing potrà spegnersi tanto velocemente quanto rapida è stata la sua affermazione. Ma le domande e la presa di consapevolezza che lo hanno generato non potranno che diventare sempre più egemoni e influenti nelle dinamiche commerciali del futuro.